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			100 “Paris, je t'aime” (oltre 20 registi, 
			Fra, 2006) * con un cast molto ricco ed eterogeneo (vedi sotto)  *  
			IMDb 7,3 RT 87% 
			
			 
			Film collettivo, praticamente una 
			serie di 18 short firmati da ancor più registi (vari episodi ne 
			hanno due), aventi come filo conduttore non solo diversi quartieri 
			di Parigi, ma soprattutto i rapporti di coppia o la ricerca 
			dell’anima gemella o quanto meno affine. 
			La lunga lista di registi che hanno 
			partecipato a questo inusuale progetto, molti dei quali sono anche 
			sceneggiatori dei propri corti, include plurivincitori di Oscar come 
			Ethan & Joel Coen, Alfonso Cuarón e Alexander Payne, oltre a tanti 
			altri che vantano Nomination e successi internazionali come Gus Van 
			Sant, Wes Craven, Isabel Coixet, il giapponese Nobuhiro Suwa, la 
			kenyota Gurinder Chadha, l’italo-americano Vincenzo Natali. 
			Il cast è ovviamente ancor più 
			corposo e anche in questo caso si trovano interpreti di tutte le età 
			e di qualunque provenienza, anche se alcuni appaiono solo per un 
			paio di battute. Giusto per fornire un’idea ecco alcuni nomi: Ben 
			Gazzara, Gena Rowlands, Emily Mortimer, Willem Dafoe, Steve Buscemi, 
			Natalie Portman, Bob Hoskins, Elijah Wood, Javier Cámara, Fanny 
			Ardant, Juliette Binoche, Nick Nolte, Marianne Faithful, Sergio 
			Castellitto, Gérard Depardieu, Maggie Gyllenhaal, Olga Kurylenko ... 
			Non c’è da meravigliarsi se fra una 
			tale varietà di stili e di storie ci siano short ottimi ed altri 
			banali, alcuni ben interpretati e diretti, altri sembrano filmini 
			messi insieme alla buona. 
			Interessante divertissement, 
			presentato al Festival di Cannes 2006, non sembra sia stato 
			distribuito in Italia. 
			Per la cronaca, l’idea originale 
			prevedeva di girare film simili in altre città del mondo come New 
			York e Tokio. In effetti il primo “remake” (“New York, I love you”, 
			previsto per il 2007) uscì solo nel 2009 mentre il progetto da 
			ambientare a Tokio nel 2008, fu trasferito a Rio de Janeiro e arrivò 
			nelle sale nel 2014 (“Rio, eu te amo2). 
			
			
			  
			
			
			99 “Affliction” (Paul Schrader, USA, 1997) * con Nick Nolte, James 
			Coburn, Sissy Spacek, Willem Dafoe 
			IMDb 7,0 RT 88% Oscar James Coburn 
			non protagonista, Nomination Nick Nolte protagonista 
			Dal poco che avevo letto in merito a 
			questo film (mai sentito nominare prima di imbattermi nel dvd) mi 
			aspettavo francamente di più, anche per l'Oscar a James Coburn e la 
			Nomination a Nick Nolte (ma in merito a questa ero già sospettoso). 
			Certamente non il miglior film di Paul Schrader, che conferma di 
			aver perso la sua buona verve di sceneggiatore (esclusivamente sua 
			quella di "Taxi Driver" e collaborò anche a "Raging Bull") ma nel 
			complesso si difende ancora dignitosamente come regista, poco 
			convincente questo suo adattamento del romanzo di Russel Banks. 
			Su tale soggetto, per niente 
			pessimo, viene imbastita una trama poco convincente con storie 
			secondarie senz'altro evitabili. Per esempio, i primi 15 minuti 
			potevano essere ridotti a 3 o anche tagliati del tutto. Buona 
			l’ambientazione quasi claustrofobica in una piccola cittadina del 
			New Hampshire (USA), dove tutti si conoscono ma i rapporti sono come 
			sempre più o meno tesi (per i più disparati motivi), e si va avanti 
			fra invidie, maldicenze, sospetti e tentativi di rivincita. 
			Apprezzabile anche la scelta di girare in pieno inverno con la 
			maggior parte degli esterni dominati dalla neve.  
			Bravo Coburn (già quasi 70enne) in 
			un ruolo per lui quasi usuale e congeniale di uomo rude, padre 
			dispotico, dedito all’alcool e violento; appare in poche scene ma in 
			modo tanto convincente da ottenere l’Oscar (l’unico della sua 
			carriera) come miglior attore non protagonista. Si difende bene 
			anche Sissy Spacek nella sua strimizita parte, meno bene Nick Nolte 
			che tuttavia ottenne la Nomination Oscar (quell’anno vinse Benigni). 
			
			
			  
			
			
			98 “36 vues du Pic Saint Loup” (Jacques Rivette, Fra, 2009) tit. it 
			“Questione di punti di vista” * con Jane Birkin, Sergio Castellitto, 
			André Marcon 
			 
			IMDb 6,2 RT 74% Nomination Leone 
			d’Oro a Venezia 2009 
			Ultimo film d Rivette (all’epoca 
			81enne) ma mi sorge il (maligno) dubbio che vi abbia messo poco più 
			che il nome e la sua mano si intravede solo nelle riprese. 
			Quattro sceneggiatori (fra i quali 
			anche Rivette e Castellitto) e un autore di dialoghi mi sembrano 
			eccessivi per un film di neanche un'ora e mezza, durante la quale si 
			parla poco e succede quasi niente.  
			Essere in troppi a decidere o 
			dirigere di solito porta a risultati scadenti, in qualunque campo, e 
			anche in questo caso è così. Poche trovate e poche frasi degne di 
			merito non salvano un film pieno di loop e scene ripetitive in 
			particolare quelle nel minuscolo e desolato circo itinerante. 
			Mi piace ricordare il Rivette 
			pilastro della Nouvelle Vague e regista di capolavori come “La belle 
			noiseuse”, questa sua chiusura di carriera sembra più che altro un 
			breve esercizio, peraltro non tanto ben riuscito. 
			
			
			  
			
			
			97 “Indochine” (Régis Wargnier, Fra, 1992) tit. it “Indocina” * con 
			Catherine Deneuve, Vincent Perez, Linh Dan Pham 
			IMDb 7,1 RT 71% *  IMDb 8,0 RT 79% * 
			Nomination Oscar per la musica  
			Oscar come miglior film non in 
			lingua inglese; Nomination per Catherine Deneuve protagonista 
			Per questa scelta mi avevano 
			attirato ambientazione geografica ed epoca (fra le due guerre 
			mondiali), nonché l’Oscar vinto. 
			Al contrario del film precedente 
			(Big Fish) in “Indochine” le interpretazioni femminili, seppur non 
			eccezionali, sono più che decenti (Catherine Deneuve comunque 
			ottenne la Nomination e buon esordio di Linh Dan Pham), mentre 
			quelle maschili sono veramente di scarsissimo livello. In 
			particolare Vincent Perez, quasi protagonista, a me del tutto 
			sconosciuto, ha lo stesso sguardo imbambolato durante l’intero film, 
			in qualunque situazione si trovi. 
			Visivamente bello tutto il girato in 
			Vietnam e Malesia, fra piantagioni di caucciù, magioni coloniali e 
			le famose baie caratterizzate da pareti rocciose pressoché verticali 
			e da tanti isolotti-pinnacoli simili a possenti e inaccessibili 
			torri; interessante lo spaccato storico del declino del colonialismo 
			francese nel sud-est asiatico. 
			La sceneggiatura zoppica (e non 
			poco) e soprattutto manca della giusta continuità, sia narrativa che 
			temporale.  
			Non vedo tutti quei meriti che 
			dovrebbero giustificare un meritato l'Oscar. 
			
			
			  
			
			
			96 “Big Fish” (Tim Burton, USA, 2003) tit. it “Le storie di una vita 
			incredibile” * con Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup, 
			Marion Cotillard, Jessica Lange 
			In linea di massima i film di Tim 
			Burton mi piacciono, ma devo dire che questo (generalmente 
			abbastanza discusso) l'ho gradito più degli altri. 
			Ho trovato pressoché perfetta la 
			miscela fra fantasia, ricordi, creatività, sfacciate bugie, 
			istrionismo... e i tanti inevitabili flashback (che di solito non 
			amo) sono inseriti al punto giusto e senza eccessive lungaggini. 
			L’essenza dei vari cambiamenti e interpretazioni delle storie 
			narrate da Ed Bloom (Albert Finney) e dei diversi valori e ruoli dei 
			vari personaggi mi ha addirittura fatto tornare in mente “Rashomon” 
			(1950, Akira Kurosawa).  
			Particolarmente bravo Albert Finney 
			(ma non è una sorpresa), nell’occasione affiancato da Ewan McGregor 
			e Billy Crudup che mi sono sembrati migliori che in tante altre 
			occasioni. Al contrario, le pur famose interpreti femminili non 
			riescono a finalizzare prestazioni decenti ... quella che meglio si 
			difende è Marion Cotillard (più che altro limitandosi a sorridere), 
			mentre Jessica Lange e l'insopportabile Helena Bonham Carter sono 
			improponibili, come quasi sempre. 
			Più che piacevole per le narrazioni 
			di storie fantastiche e per i tanti sorprendenti personaggi, quello 
			meno riuscito è il gigante.  
			Pur guardato con mente aperta e 
			buona disposizione verso la fantasia, “Big Fish” riesce anche a far 
			riflettere su vari argomenti più che seri (famiglia, morte, rapporto 
			genitori/figli, ..), altrimenti offre comunque 2 ore di buono svago. 
			Consigliato. 
			
			
			  
			
			
			95 “A Taste of Honey” (Tony Richardson, UK, 1961) tit. it “Sapore di 
			miele” * con Rita Tushingham, Dora Bryan, Robert Stephens, Murray 
			Melvin  *  IMDb 7,6 RT 88% 
			Film rappresentativo della poco 
			conosciuta New Wave inglese, quasi un cult fra i cinefili figli di 
			Albione. Avvalendosi di un'ottima fotografia in bianco e nero il 
			regista-sceneggiatore Tony Richardson (soprattutto noto per il suo 
			“Tom Jones”, 1963, 2 Oscar per miglior film e regia) espone la 
			storia di una ragazza, non ancora maggiorenne, di padre sconosciuto, 
			con una madre egoista che la trascura e la abbandona, che resta 
			incinta di un marinaio di colore e finisce per andare a convivere 
			con un gay. Se a qualcuno non sembrasse abbastanza, aggiungete che 
			nel '61, essere omosessuali era reato e che figli mulatti non erano 
			all'ordine del giorno.  
			Ottimi i 4 protagonisti: 
			l'esordiente Rita Tushingham (Golden Globe come miglior promessa), 
			Dora Bryan (ben nota attrice tearale inglese), il quasi esordiente 
			sul grande schermo Robert Stephens (proveniente dal teatro di 
			qualità e nel 1995 nominato Sir per i suoi meriti artistici) e 
			Murray Melvin (anche lui a inizio carriera, premiato a Cannes come 
			miglior attore e BAFTA come miglior promessa). 
			Questa quasi perfezione è intaccata 
			dalla scarsa plausibilità della trama e dei singoli eventi che, 
			tuttavia, è di secondaria importanza rispetto al film nel suo 
			complesso e ai singoli temi trattati (come detto quasi tabù per 
			l’epoca).  
			Vale senz’altro la pena recuperarlo. 
			  
			
			
			94 “You can't take it with you” (Frank Capra, USA, 1938) tit. it 
			“L'eterna illusione” * con Jean Arthur, James Stewart, Lionel 
			Barrymore, Spring Byington  *  IMDb 8,0 RT 91%  * 2 Oscar (miglior 
			film e regia) e altre 5 Nomination (Spring Byington non 
			protagonista, sceneggiatura, fotografia, montaggio, sonoro)  *  La 
			versione teatrale (precedente, dalla quale è tratta la 
			sceneggiatura) aveva vinto il Premio Pulitzer nel 1937. 
			Dopo la "boiata" di "The Death of 
			Stalin" ho voluto compensare quella perdita di tempo con una 
			classica commedia americana degli anni '30 della quale non avevo mai 
			sentito parlare, nonostante i 2 Oscar + 5 Nomination e i nomi di tre 
			pietre miliari di Hollywood: Frank Capra, James Stewart e Lionel 
			Barrymore. 
			Commedia dei buoni sentimenti, con 
			le solite contrapposizioni fra personaggi semplici , sinceri e 
			sognatori e quelli avidi, boriosi e prepotenti; in mezzo c'è la 
			storia d'amore. La particolarità di questo film consiste nella 
			grande varietà di personaggi a dir poco eccentrici, quasi tutti 
			facenti parte o almeno connessi con l'ampia famiglia Sycamore ( i 
			“poveri ma felici”).  
			Soprattutto in quest’ambiente 
			succede quasi di tutto, in quanto nella casa più o meno convivono 
			un’aspirante drammaturga e pittrice, fabbricanti d fuochi 
			artificiali, creatori di maschere, un tipografo/suoantore di 
			xilofono, una coppia di colore tuttofare, un’aspirante ballerina e 
			il suo maestro di danza russo, ovviamente interpretato da Mischa 
			Auer. Considerando anche l'arresto dell’intero gruppo (in cella per 
			qualche ora) e poi il giudizio in tribunale, capirete bene che le 
			due ore passano velocemente e piacevolmente, a parte qualche 
			inevitabile rallentamento. 
			Non solo i protagonisti principali, 
			ma l’intero cast offre perfette interpretazioni fra le quali spicca 
			quella di Harry Davenport nei pani del giudice. 
  
			
			
			93 “The Death of Stalin” (Armando Iannucci, UK-Fra-Bel, 2017) tit. 
			it “La morte di Stalin” * con Steve Buscemi, Simon Russell Beale, 
			Jeffrey Tambor, Michael Palin  *  IMDb 7,5 RT 97% 
			Non capisco tutto l’entusiasmo per 
			questa “commedia storica” (esiste?) che riesce a non essere né carne 
			né pesce. Non mi è sembrata particolarmente divertente ponendo in 
			ridicolo personaggi storici, per quanto discutibili possano essere 
			stati, né abbastanza critica nello specifico in quanto penso che in 
			qualunque “regime” siano successe e succedano cose simili. Trovo che 
			sia solo una feroce presa in giro di alcuni protagonisti di una 
			serie di eventi in un particolare momento della storia russa e, più 
			in generale, dei russi e per questo ha avuto successo in “occidente” 
			mentre è stato addirittura bandito in Russia. 
			I personaggi sono eccessivamente 
			caricaturali e Iannucci mette in risalto le loro debolezze, vizi e 
			follie, dimenticandosi di tutto il resto. Alcuni, come per esempio 
			Malenkov (interpretato da Jeffrey Tambor) viene proposto come un 
			vero demente ...  
			Il cast eterogeneo (inglese - 
			americano - russo - ...) di buon livello, probabilmente solo Michael 
			Palin (ex Monty Python) si è trovato a suo agio pur essendo meno 
			ridicolo del solito. Per pura curiosità sono andato a dare uno 
			sguardo ai veri volti dei protagonisti dell’immediato “dopo-Stalin” 
			e nessuno nel film somiglia al suo vero personaggio. Altro che Gary 
			Oldman / Winston Churchill! 
			E per fortuna l’ho visto in edizione 
			originale ... posso solo immaginare (con terrore) i disastri delle 
			traduzioni e dei doppiaggi. 
			Assolutamente sopravvalutato! 
			 
  
			
			
			92 “Zodiac” (David Fincher, USA, 2007) * con Jake Gyllenhaal, Robert 
			Downey Jr., Mark Ruffalo  *  IMDb 7,7 RT 90% * Nomination Palma 
			d’Oro a Cannes 
			Thriller-poliziesco un po' fuori del 
			normale, basato su una storia vera di un serial killer, anch'essa 
			abbastanza inusuale per durare vari decenni. Oltre a scoprire ciò 
			dopo aver visto il film (a fiducia visti i rating e il cast 
			abbastanza decente), ho anche letto dell'enorme (forse eccessiva) 
			pignoleria nel ricostruire le scene fino a replicare perfino gli 
			abiti e ricostruire angoli di strade dove non era consentito 
			effettuare riprese. Per questa mania di raccontare tutto, e nei 
			dettagli, la sceneggiatura era troppo lunga e nonostante il regista 
			David Fincher avesse cercato di non dilungarsi, addirittura 
			richiedendo agli attori di parlare velocemente per accorciare i 
			tempi, il film resta troppo lungo per ciò che racconta. Un altro 
			handicap (almeno per me) è quello dei troppi nomi citati (riferiti a 
			personaggi visti o non visti) a proposito dei vari omicidi 
			precedenti fra sospettati, vittime, investigatori, giornalisti 
			tirati più volte in ballo e quindi e bisogna essere pronti ad 
			abbinarli ad un volto e ricordare quale ruolo hanno nella storia, 
			almeno fino a quel momento. 
			Robert Downey si difende, Mark 
			Ruffalo ha fatto di meglio, i comprimari mi sono sembrati migliori 
			di loro, mentre continuo a trovare pessimo Jake Gyllenhaal ... 
			Guardabile seppur un po’ stancante, 
			storia interessante se si riesce a seguirla con tutti i suoi 
			intrecci. 
			
			
			   
			
			
			91 “Dune” (David Lynch, USA, 1984) * con Kyle MacLachlan, Virginia 
			Madsen, Francesca Annis  *  IMDb 6,6 RT 56% * Nomination Oscar per 
			il miglior sonoro 
			Per associazione di idee (titolo) da 
			un cult giapponese passo a un cult di Lynch, quest'ultimo con molti 
			sostenitori, ma altrettanti detrattori. Si tratta del suo terzo 
			lungometraggio, dopo “Eraserhead” (1977) e “The Elephant Man” 
			(1980), di genere molto diverso ma il tema sci-fi consente al 
			regista di continuare a proporre personaggi “diversi”.  
			Non sono un esperto del genere e 
			quindi non azzardo paragoni con altri film cult fantascientifici 
			della seconda metà del secolo scorso. Mi sono piaciute la regia, le 
			riprese, la fotografia e ho apprezzato anche il molto eterogeneo 
			cast che tuttavia ha la sua pecca proprio nell’interprete principale 
			(Kyle MacLachlan) nei panni di Paul Atreides - Usul - Muad'Dib. Un 
			po’ difficile per i non “addetti ai lavori” seguire le vicende che 
			certo non si sviluppano con le normali leggi spazio-temporali ... ma 
			questa è la fantascienza.  
			Essendo rimasto colpito dai tanti 
			nomi e termini di sapore arabeggiante ho eseguito una brevissima 
			ricerca e ho avuto conferma delle mie impressioni in questo
			
			interessantissimo articolo di Khalid Baheyeldin che suggerisco di 
			leggere. 
			L’autore affronta il tema 
			soprattutto sotto il punto di vista etimologico e mette in risalto 
			non solo i tantissimi legami con la cultura islamica, ma ne 
			evidenzia anche altri ebrei, greci e slavi.  
			Da inesperto e non appassionato di 
			sci-fi, penso che “Dune” meriti comunque una attenta visione, in 
			particolare se si apprezza lo stile di Lynch il quale, tuttavia, ha 
			prodotto di meglio. 
			“Dune” è la trasposizione 
			cinematografica del primo (1965) dei 6 libri della saga omonima, 
			scritta dal pluripremiato Frank Herbert. Lo stesso Lucas confessò di 
			essere stato influenza da questa serie di romanzi quando iniziò la 
			sua saga di “Star Wars” (1977) 
			
			
			  
			
			
			90 “Woman in the Dunes” (Hiroshi Teshigahara, Jap, 1964) tit. or.
			
			
			“Suna no onna”, tit. it “La donna di sabbia” * con Eiji Okada, Kyôko 
			Kishida, Hiroko Itô * IMDb 8,5 RT 100% 
			
			 
			Dopo i due film di Yoshishige 
			Yoshida e i due di Shôhei Imamura concludo la mia ennesima 
			incursione nel cinema giapponese classico e di livello con questo 
			“Woman in the Dunes” (aka “Woman of the Dunes”, traduzione più 
			corretta) che ottenne 2 Nomination Oscar (miglior film non in lingua 
			inglese nel 1965 e regia nel 1966) oltre al Premio Speciale della 
			giuria a Cannes e Nomination alla Palma d’Oro.  
			Non solo a causa di questi 
			importanti riconoscimenti (inusuali per un regista non proprio 
			famoso) ma soprattutto per la qualità tecnica, nonché per il tema e 
			l’ambientazione assolutamente inusuali, il film è immediatamente 
			divenuto un cult movie (notare i rating di 8,5 su IMDb e 100% su 
			Rotten Tomatoes, 27 rececensioni positive su 27).  
			La regia e la fotografia (b/n, con 
			molte riprese macro - guardate le foto) sono senza dubbio di ottimo 
			livello, anche le interpretazioni dei due protagonisti assoluti 
			(l’intero cast, inclusi ruoli secondari, conta meno di una decina di 
			attori) sono convincenti, la poca musica (molto particolare) si 
			adatta perfettamente alla situazione, il soggetto è affascinante e 
			molto simbolico, ma la sceneggiatura, secondo me, lascia molto a 
			desiderare. Le circa 2 ore e mezza del film si svolgono fra dune 
			sabbiose vicine al mare e per lo più in un vasto sprofondamento 
			dalle pareti ripide e troppo friabili per poter essere scalate, nel 
			quale un entomologo si trova intrappolato insieme con una donna che, 
			incredibilmente, vive lì. 
			Pur volendo interpretare il tutto 
			come una metafora dei rapporti umani e della vita in genere, le 
			carenze sono molte e spesso manca anche quel minimo di logica che 
			avrebbe potuto far riflettere di più. 
			A chi fosse interessato al cinema 
			giapponese classico degli anni ’60 segnalo (di nuovo) questa
			
			interessante lista creata su mubi.com 
			
			  
			
			
			88 “Erogotoshi-tachi yori: Jinruigaku nyûmon” (Shôhei Imamura, Jap, 
			1966) tit. int. “The Pornographers”, tit. it “Introduzione 
			all'antropologia” * con Shôichi Ozawa, Sumiko Sakamoto, Ganjirô 
			Nakamura * IMDb 7,5 RT 100% 
			 
			89 “Kuroi Ame” (Shôhei Imamura, Jap, 
			1989) tit. int. “Black Rain” (- Pioggia nera)* con Yoshiko Tanaka, 
			Kazuo Kitamura, Etsuko Ichihara * IMDb 8,0 RT 85%  
			Due film di Shôhei Imamura, il quale 
			cominciò la sua carriera come assistente di Ozu e negli anni ’60 
			passò alla New Wave giapponese.  
			“The Pornographers” descrive la vita 
			quotidiana di un piccolo produttore-regista di pellicole 
			pornografiche a bassissimo costo e del suo piccolo entourage, dei 
			suoi rapporti con una vedova che crede che il defunto marito si sia 
			reincarnato in una carpa e con la figliastra, nonché con i suoi vari 
			strani clienti ed un gruppo di piccoli criminale che lo 
			taglieggiano. Mostra, con un certo senso umoristico, un Giappone 
			diverso da quello di solito rappresentato nei film dell’epoca. In 
			più momenti ricorda lo stile di Yoshishige Yoshida ma certo non è al 
			suo livello. 
			Al contrario, “Black rain” (basato 
			sull’omonimo romanzo di Masuji Ibuse) è un film decisamente 
			drammatico e affronta il tema delle conseguenze del bombardamento di 
			Hiroshima, con sintomi (e decessi) che appaiono anche dopo vari anni 
			dal rilascio dell’atomica e dei particolari rapporti che si 
			instaurarono fra i contaminati e le altre persone. Il film ottenne 
			due premi speciali a Cannes 1989 dove fu anche candidato alla Palma 
			d’Oro e si distingue dalla maggior parte dei precedenti lavori di 
			Imamura, per lo più tendenti alla dark comedy e ambientati in 
			situazioni molto diverse da quelle medio borghesi del suo maestro 
			Ozu. 
			Si deve anche sottolineare che 
			Imamura girò anche un diverso finale (più che altro un proseguimento 
			della storia), con una lunga parte di 19 minuti e a colori, in 
			contrasto con il bianco e nero del film, ambientata quindici anni 
			dopo la fine delle vicende proposte nella versione ufficiale 
			(1945-1950). Questa parte è disponibile fra gli extra del dvd, ma è 
			opinione comune dei critici, del regista e dei suoi collaboratori 
			che non avrebbe aggiunto niente alla pellicola, che è perfetta così 
			come è e come viene normalmente proiettata. 
			Entrambe sono una visione quasi 
			indispensabile per avere un’idea del buon cinema giapponese al di là 
			dei prodotti più noti, ma non per questo sempre migliori. 
			Le quattro foto dopo i poster si 
			riferiscono a "Black Rain", le altre 3 a "The Pornographers". 
			 
			A chi fosse interessato al cinema 
			giapponese classico degli anni ’60 segnalo (di nuovo) questa
			
			interessante lista creata su mubi.com 
			
			
			  
			
			
			85 “Inspector Hornleigh” (Walter Forde, UK, 1939)  *  con Gordon 
			Harker, Alastair Sim, Miki Hood * IMDb 7,0 
			
			 
			86 “Inspector Hornleigh on Holiday” 
			(Walter Forde, UK, 1939)   * con Gordon Harker, Alastair Sim, Linden 
			Travers * IMDb 7,1  
			87 “Inspector Hornleigh Goes To 
			It” 
			(Walter Forde, UK, 1941) aka “Mail train”  * con Gordon Harker, 
			Alastair Sim, Phyllis Calvert * IMDb 7,0  
			L’ispettore Hornleigh di Scotland 
			Yard fu creato da Hans Priwin come personaggio di una serie di 
			detective stories radiofoniche che negli anni ‘30 ebbe grande 
			successo nelle trasmissioni settimanali della BBC, interpretato 
			dall’attore S. J. Warmington. Di conseguenza, dovendo essere per lo 
			più parlato, si basava molto sulle indagini che l’ispettore 
			conduceva interrogando un certo numero di persone e quindi gli 
			ascoltatori “partecipavano” alla ricerca del colpevole che veniva 
			smascherato solo all’ultimo momento, ma con deduzioni logiche alla 
			quale i più attenti e arguti potevano egualmente arrivare. 
			A seguito di questo successo, nel 
			1939 si intraprese la via del cinema cambiando però un poco il 
			personaggio (interpretato da Gordon Harker) che passò ad essere 
			della Metropolitan Police e per il grande schermo ora contava su un 
			assistente scozzese un po’ pasticcione (il sergente Bingham 
			interpretato da Alastair Sim) il quale contribuiva, e non poco, a 
			dare un tocco di commedia alle indagini oltre che a intralciare - 
			involontariamente - il lavoro dell’arguto ispettore. Più o meno fra 
			i due c’era un rapporto intellettivo simile a quello fra Sherlock 
			Holmes e il suo fido Dr. Watson, con il primo pensante e geniale, il 
			secondo volenteroso, fedelissimo e incapace che tuttavia, seppur per 
			puro caso, spesso contribuiva alla risoluzione di un caso. 
			Anche la versione cinematografica 
			ottenne un’ottima accoglienza, ma fu limitata a questi tre per il 
			rifiuto di Alastair Sim di continuare ad interpretare Bingham in 
			quanto aveva altre aspirazioni e non voleva restare incollato al 
			personaggio, venendo identificato con esso. 
			Le tre storie si rivelano essere una 
			ben bilanciata miscela di commedia e detective story seria, sempre 
			con molti possibili sospetti e con cospirazioni vere e proprie e non 
			un singolo colpevole. Oltre a ciò, e pur essendo film datati, la 
			visione risulta più che piacevole anche per essere ben realizzati, 
			per avere due ottimi attori perfettamente calati nelle rispettive 
			parti (Sim era veramente scozzese e marcava il suo accento che 
			contrastava con il cockney dell’ispettore) e per non essere mai 
			banali o di cattivo gusto. 
			
			  
			
			
			84 “Eros + Massacre” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1969) tit. or. 
			
			“Erosu purasu gyakusatsu” * con Mariko Okada, Toshiyuki Hosokawa, 
			Yûko Kusunoki  *  IMDb 8,1 
			
			 
			Non penso di esagerare affermando 
			che le 3h35’ di questo lavoro di Yoshida sono una continua 
			celebrazione del linguaggio filmico, in particolare per ciò che 
			riguarda la minuziosa scelta delle inquadrature. 
			Rimangono impressi i tanti diversi 
			effetti delle composizioni per niente convenzionali del regista a 
			cominciare dalla gran varietà di elementi con i quali seziona lo 
			schermo non solo secondo semplici assi, ma anche creando finestre 
			con altre linee che dividono lo schermo, in modo anche irregolare, 
			che diventano piccoli schermi inseriti nel principale. Ma colpiscono 
			anche i campi lunghi con grandangolo e con elementi che si ripetono, 
			le riprese verticali dall’alto, con soggetto rovesciato o in 
			rotazione, primi piani ripresi dal basso che si vanno ad incastonare 
			in una cornice fittizia, i soggetti posizionati molto lateralmente, 
			nell’ultimo quarto o quinto dell’inquadratura, fattore che viene 
			esaltato dal rapporto 2,35:1 e diventa specialmente efficace nel 
			caso siano due, ai limiti opposti dello schermo, le frequenti scene 
			sovrapposte, i campi lunghi con i soggetti quasi in miniatura che si 
			muovo lungo il limite superiore o inferiore dell’inquadratura ... 
			tagliati a metà, campi medi con pochissima profondità di campo che 
			vanno dall’effetto bokeh alla semplice riduzione dell’area a fuoco 
			mediante un elemento più grande sfuocato ed in primo piano, e tante 
			altre creazioni estremamente interessanti. 
			A tutto ciò aggiungete il discorso 
			filosofico-rivoluzionario evidenziato dai dialoghi fra i 
			protagonisti delle due storie che si sviluppano a mezzo secolo di 
			distanza, con i due giovani studenti che alla fine degli anni ’60 
			“scoprono” le idee dell’anarchico militante giapponese Sakae Osugi 
			(anche sostenitore dell’amore libero) che è protagonista delle scene 
			ambientate nel 1916 con le sue tre compagne: sua moglie Yasuko Hori, 
			la militante femminista Itsuko Masaoka e la sua ultima amante Noe 
			Itō, anarchica e femminista, successivamente assassinata insieme a 
			lui dalla polizia militare nel 1923. 
			Yoshishige Yoshida (aka Kiju Yoshida) 
			inizialmente fu pilastro della cosiddetta New Wave giapponese, 
			insieme con Nagisa Oshima and Masahiro Shinoda, ma ben presto se ne 
			allontanò per avere maggior libertà e produsse in proprio i suoi 
			migliori film fra i quali “Eros + Massacre”, da molti reputato il 
			suo migliore in assoluto. Fu attivo soprattutto negli anni ’60 e 
			all’inizio del decennio successivo, per poi dirigere soli altri tre 
			film, nell’86, ’88 e 2002. “Eros + Massacre” è il primo film della 
			trilogia di Yoshida sul radicalismo politico, seguito da Heroic 
			Purgatory (1970, sul comunismo) e Coup d'Etat (1973, sul 
			nazionalismo e l’estrema destra). 
			Film da non perdere! In particolare 
			gli amanti del vero cinema non possono fare a meno di guardarlo ... 
			anche se a pezzi data la durata. 
			
			
			  
			
			
			83 “A Story Written with Water” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1965) tit. 
			or. 
			
			“Mizu de kakareta monogatari” * con Mariko Okada, Ruriko Asaoka, 
			Yasunori Irikawa, Isao Yamagata  *  IMDb 7,4 
			Come anticipato, dopo aver visto 
			film sopravvalutati candidati agli Oscar e Z-movie cult (di Ed Wood) 
			torno al cinema “serio” con un paio di film di Yoshishige Yoshida (aka 
			Kiju Yoshida). Procedendo in ordine cronologico, ho cominciato con 
			questo doppio dramma familiare, con quattro personaggi legati fra 
			loro a più livelli ... e ce ne potrebbe essere ancora un altro. In 
			questo caso i tanti flashback (che di solito non amo) sono inseriti 
			alla perfezione e sono significativi e ad essi si aggiungono varie 
			scene oniriche e surreali, tutte descritte in un ottimo bianco e 
			nero. Fra un matrimonio non perfetto e tanto complesso di Edipo, i 
			protagonisti si incontrano e si scontrano fino alla conclusione che 
			lascia allo spettatore parecchie possibilità di interpretazione. 
			Molto bravo il protagonista Yasunori 
			Irikawa e le due prime donne che lo affiancano, Mariko Okada nel 
			ruolo della madre e Ruriko Asaoka la moglie. 
			Yoshida fu un esponente principale 
			della “new wave” giapponese, insieme con Nagisa Oshima e Masahiro 
			Shinoda, e fu attivo soprattutto negli anni ’60 e inizio dei ’70, 
			dopodiché ha diretto solo altri 3 film nell’86, ’88 e 2002. Nel 1964 
			sposò l’attrice Mariko Okada, protagonista di molti suoi film, e il 
			matrimonio continua, dopo oltre 50 anni. 
			Film senz’altro apprezzabile e da 
			guardare con attenzione in quanto è ben diverso dai classici e anche 
			dai giapponesi moderni. 
  
			
			
			81 “Night of the Ghouls” (Edward D. Wood Jr., USA, 1959) tit. it.
			
			
			“La notte degli spettri” * con Kenne Duncan, Duke Moore, Tor Johnson  
			*  IMDb 3,6 RT 30% 
			
			 
			82 “Plan 9 From Outer Space” (Edward 
			D. Wood Jr., USA, 1959) * con Gregory Walcott, Tom Keene, Mona 
			McKinnon, Tor Johnson  *  IMDb 4,0 RT 67%  
			Altri due film del 
			regista-sceneggiatore-produttore 
			
			
			#EdWood (noto per essere 
			reputato il peggiore della storia del cinema) con i quali ho 
			concluso il mio breve approfondimento della sua filmografia, in 
			quanto reputo che cinque film siano più che sufficienti e 
			considerato che negli anni ‘60 produsse per lo più exploitation 
			movies, porno softcore e veri e propri film pornografici. 
			Dei cinque, “Night of the Ghouls” è 
			il più insignificante, riuscendo solo ad essere banale e mal 
			realizzato, senza neanche riuscire a divertire per la sua 
			insulsaggine. 
			“Plan 9 From Outer Space” è invece 
			il più noto dei relativamente numerosi film realizzati Edward D. 
			Wood Jr. e in esso, al contrario di “Night of the Ghouls”, Ed Wood 
			entusiasma i cinefili proponendo geniali scenografie con 
			“minimalistimissime” ricostruzioni di ambienti come la cabina di 
			pilotaggio dell'aereo (fantastiche le cloche) e l'interno 
			dell'aeronave che, oltretutto, quando vola è a sezione circolare e a 
			terra quadrata, inserendo vecchie riprese con Bela Lugosi (deceduto 
			due anni prima) e facendo poi comparire il personaggio varie altre 
			volte ma, essendo ovviamente interpretato da un diverso attore, 
			sempre con il volto coperto dal mantello; come nei film precedenti è 
			singolare che le vittime di aggressioni strillino ma non reagiscano 
			mai, neanche un minimo istintivo movimento e notevoli sono anche le 
			scene nelle quali tutti gli attori sono schierati e mentre dialogano 
			hanno la stessa mobilità di stoccafissi surgelati. (date un’occhiata 
			agli screenshot allegati!) 
			Molto originale anche l'intreccio 
			della trama tra thriller, sci-fi e horror-zombie, con 
			interpretazioni memorabili. Per esempio, l’inconfondibile Tor 
			Johnson (ex wrestler) ha anche una parte non da zombie, ma se non 
			fosse per il cambio di abbigliamento non si noterebbe ... 
			In conclusione, un vero cult movie 
			da guardare e riguardare in quanto non si finisce mai di notare 
			errori, apprezzare l’inespressività degli attori e la banalità delle 
			battute, trovare lacune e incongruenze nella trama ... 
			In alcuni punti mi ha ricordato il 
			demenziale “Be Kind Rewind” (2008) nel quale Jack Black, nottetempo, 
			ri-girava qualunque blockbuster gli fosse stato richiesto dopo aver 
			inavvertitamente cancellato tutti i nastri della videoteca in cui 
			lavorava.  
			A proposito di questo film voglio 
			citare questo ormai famoso stralcio di recensione:  
			“Epitome del cinema 
			tanto-cattivo-da-essere-buono, “Plan 9 From Outer Space” è un 
			involontariamente ridicolo sci-fi "thriller" dell’anti-genio Ed 
			Wood, il quale è giustamente famoso per la sua straordinaria 
			inettitudine”. 
			
			
			  
			
			
			80 “Phantom Thread” (Paul Thomas Anderson, USA, 2017) tit. it.
			
			
			“Il filo nascosto” * con Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis, Lesley 
			Manville  *  IMDb 7,6 RT 96%  *  6 Nomination Oscar: Miglior film, 
			regia, Daniel Day-Lewis protagonista, Lesley Manville non 
			protagonista, commento musicale, costumi 
			Sono entrato in sala un po' timoroso 
			dopo la grande delusione di “Lady Bird”, visto poco prima, e sapendo 
			che l’ambiente nel quale si svolge “Phantom Thread” è quello 
			dell’alta moda (non è che proprio mi affascini, anzi) e quindi tutte 
			le mie speranze erano riposte in Daniel Day-Lewis. 
			In questa occasione il 
			regista-sceneggiatore Anderson (autore delle sceneggiature di tutti 
			i suoi soli 8 film in 20 anni) ha deciso di cimentarsi anche come 
			direttore della fotografia, seppur uncredited. Cominciando da lui, 
			mi è piaciuta abbastanza la regia (senza entusiasmarmi), molto poco 
			la sceneggiatura, e in quanto alla fotografia più che apprezzabile 
			per gli interni e i dettagli, deludente negli esterni. 
			Il pur sempre bravo Daniel Day-Lewis 
			si ritrova ad interpretare un personaggio strano, apparentemente 
			forte, ma assolutamente dominato dalle donne che gli sono (e sono 
			state) accanto, che riescono a gestirlo sottilmente. Forse per il 
			tipo di personaggio in fondo molto remissivo, forse per essere 
			giunto alla sua ultima interpretazione (ma perché ritirarsi a 60 
			anni? c’è qualcosa che non so?), forse per precise direttive del 
			regista, mi sembra che non sia riuscito a fornire una prova incisiva 
			come quelle indimenticabili di “There Will Be Blood” e “Lincoln”.
			 
			Brava Lesley Manville nel ruolo 
			della sorella del famoso sarto, senza infamia e senza lode la “prima 
			donna” Vicky Krieps, nel ruolo della indisponente e perfida Alma. 
			Certamente è un film ben costruito 
			nel complesso ma, a quanto leggo, è per me generalmente 
			sopravvalutato.  
			
			
			  
			
			
			79 “Lady Bird” (Greta Gerwig, USA, 2017) * con Saoirse Ronan, Laurie 
			Metcalf, Tracy Letts  *  IMDb 7,7 RT 99%  *  5 Nomination Oscar: 
			Miglior film, regia, Saoirse Ronan protagonista, Laurie Metcalf non 
			protagonista, sceneggiatura  
			
			
			Qualcuno sarebbe così gentile da spiegarmi i (presunti) meriti di 
			"Lady Bird" per i quali ha ottenuto 5 Nomination “importanti”???
			
			 
			Sarà, come temevo, una concessione 
			alle donne (Greta Gerwig è l’unica regista candidata) dopo quelle 
			agli afroamericani dell’anno scorso?  
			Film senza né capo né coda, dialoghi 
			di una pochezza inaudita (pur volendo considerare gli evidenti 
			limiti dei protagonisti), Saorsie Ronan - che interpreta una 
			diciassettenne - dimostra tutti i suoi anni (23) e forse anche 
			qualcuno in più ... non c'erano alternative?, regia pietosa, 
			montaggio scandaloso, c'è bisogno di aggiungere altro?  
			Dimenticavo, in una piccola parte 
			c'è anche il tanto elogiato Timothée Chalamet (candidato Oscar come 
			miglior attore protagonista per Call Me by Your Name) ... ma siamo 
			sicuri del suo talento? 
			I film di Ed Wood visti nei giorni 
			scorsi, almeno, facevano sorridere per l'incompetenza del 
			regista-sceneggiatore che oltretutto doveva arrangiarsi come poteva 
			con il suo striminzito budget ... leggo che "Lady Bird" è costato 10 
			milioni di dollari! 
  
			
			
			78 “I, Tonya” (Craig Gillespie, USA, 2017) tit. it. “Tonya” * con 
			Margot Robbie, Allison Janney, Sebastian Stan *  IMDb 7,6 RT 90% * 3 
			Nomination Oscar: Margot Robbie protagonista, Allison Janney non 
			protagonista, montaggio 
			
			
			“A dramedy that is neither a good drama nor a decent comedy.” 
			
			
			Ho ripreso il titolo di una recensione in quanto penso che esprima 
			bene anche il mio punto di vista ma, non avendo letto tale critica, 
			le mie perplessità e valutazioni potrebbero anche essere del tutto 
			differenti 
			Pur coprendo una ventina d’anni 
			della carriera di Tonya come pattinatrice, lo schema delle varie 
			situazioni è troppo ripetitivo e prevedibile. Il contrasto fra ciò 
			che viene mostrato e i commenti fatti nel corso delle “interviste” 
			di vari anni dopo lascia troppi vuoti e pochi dati di fatto. Tonya 
			viene quasi presentata come vittima assoluta ma, comunque siano 
			andate effettivamente le cose (e non si sa con esattezza), ha tante 
			responsabilità e la sua solita giustificazione (nel film) “Non è 
			colpa mia” certamente non regge. 
			L’esposizione dei fatti sarà anche 
			abbastanza vicina alla realtà (Dio prima li fa e poi li accoppia) ma 
			un tale gruppo di folli irrazionali e gratuitamente violenti così 
			come sono presentati è al limite della credibilità per un biopic. 
			Penso che nella sceneggiatura si sia calcato un po’ troppo la mano 
			su certi personaggi (un paio per tutti: Shawn e Shane) per strizzare 
			l’occhio alla black comedy e ci siano troppe scene di violenza, di 
			ogni tipo, per aumentarne la drammaticità, tuttavia non riuscendo a 
			raggiungere alcun obbiettivo. 
			Da sportivo, ho apprezzato invece le 
			recriminazioni (vere o creazioni dello sceneggiatore Steven Rogers?) 
			di Tonya nei confronti dei giudici. Gli argomenti sollevati sono 
			vere palle al piede, spesso aggravate dalla disonestà di alcuni 
			arbitri, per sport nei quali si dà troppa importanza dei fattori 
			estetici a discapito delle valutazioni strettamente tecniche e si sa 
			che titoli e trofei (e soldi) sono spesso attribuiti per questioni 
			di centesimi di punti e quindi ne conseguono infinite polemiche. E 
			la spiegazione conclusiva del giudice in merito all’immagine mette 
			altra carne a cuocere. Ho la sensazione che tali dialoghi siano 
			stati scritti ed inseriti in modo abbastanza sottile e finalizzato. 
			Tornando al film, si fanno certo 
			notare le due prime donne Margot Robbie e Allison Janney (entrambe 
			candidate all’Oscar), ma le loro interpretazioni non mi sono 
			sembrate certo strepitose, in particolare penso che la prima non 
			abbia alcuna speranza di vincere la sua statuetta.  
			Le scene di pattinaggio non sono 
			eccessivamente invadenti e certamente non predominanti, ma una buona 
			ulteriore sforbiciata sarebbe stata opportuna. 
			Guardabile, ma non imperdibile. 
  
			
			
			77 “All the Money in the World” (Ridley Scott, USA, 2017) tit. it.
			
			
			“Tutti i soldi del mondo” * con Michelle Williams, Christopher 
			Plummer, Mark Wahlberg *  IMDb 7,1 RT 77% (83% top critics)  *  
			Nomination Oscar per Christopher Plummer come miglior attore non 
			protagonista 
			Questo film retto dalle due ottime 
			interpretazioni di Christopher Plummer e Michelle Williams, la quale 
			avrebbe meritato più considerazione per le Nomination agli Oscar, è 
			segnato dal cambio di uno degli attori principali (Kevin Spacey, per 
			i noti motivi) a riprese già molto avanzate. In meno di un mese sono 
			state quindi ri-girate tutte le scene nelle quale compariva e ciò 
			torna ad ulteriore merito dell’ottimo Christopher Plummer il quale, 
			per questa interpretazione, diventa il più anziano candidato agli 
			Oscar per l’interpretazione, “titolo” che già glia apparteneva per 
			l’Oscar vinto nel 2012 con “Beginners” (2010). 
			Il soggetto è la vera storia del 
			rapimento del nipote del magnate Paul Getty ed è cosa ben nota, 
			almeno fra tutti gli ultrasessantenni, i quali ricorderanno anche 
			quegli anni in genere, compresa la crisi del petrolio dell’epoca e 
			la conseguente “austerity”. Tuttavia, nell’elaborare la 
			sceneggiatura varie cose sono cambiate, qualcuna è stata inventata 
			di sana pianta e l’Italia rappresentata da Ridley Scott è, 
			inevitabilmente, piena di luoghi comuni e stereotipi.  
			Interessanti gli ambienti in cui si 
			muove il vecchio Getty e buona caratterizzazione del personaggio, 
			pressoché ridicole le rappresentazioni dei vari rapitori (esaltando 
			la parte di brutti e sporchi, in fondo non tanto cattivi) e dei 
			luoghi che abitano. Per quanto riguarda gli altri esterni, abbondano 
			i soliti panorami romani con l’aggiunta di una miriade di Vespe e 
			paparazzi. Non ho apprezzato gli inutili (almeno secondo me) 
			andirivieni temporali. 
			Nel complesso un film così così, con 
			una buona regia (da apprezzare soprattutto il “salvataggio” del film 
			in corso d’opera) e due ottime interpretazioni, mentre Mark Wahlberg 
			(in una delle sue prove più scialbe) e il resto del cast sono 
			veramente sotto la media.  
			PS - trovo che con il passare degli 
			anni Plummer diventi sempre più somigliante a Anthony Quinn 
  
			
			
			75 “Jail bait” (Edward D. Wood Jr., USA, 1954) * con Lyle Talbot, 
			Dolores Fuller, Herbert Rawlinson IMDb 3,3 RT 29% 
			
			 
			76 “Bride of the Monster” (Edward D. 
			Wood Jr., USA, 1955) tit. it. 
			
			“La sposa del mostro” * con Bela Lugosi, Tor Johnson, Tony McCoy 
			IMDb 4,1 RT 45% 
			 
			I film di Edward D. Wood Jr., 
			ovverossia il fascino dell'orrido, senza nessun riferimento 
			all’horror che è tutt’altra cosa. 
			Per fortuna i suoi film sono brevi, 
			solo poco più di un’ora e hanno il vantaggio, già sottolineato da 
			molti, di essere talmente mal realizzati, ed in varie parti 
			veramente ridicoli, da risultare divertenti. 
			Non per niente Ed Wood si è 
			guadagnato il titolo di “peggior regista di sempre”. 
			Venendo ai due film visti ieri, devo 
			dire che non sono d’accordo nell’ordine di merito (guardate i 
			rating) e penso che il secondo sia stato “salvato” dai cinefili fan 
			di Bela Lugosi, al suo penultimo film. 
			In entrambe i casi soggetto e 
			sceneggiatura sono scritti da Wood a quattro mani con il suo fido 
			amico Alex Gordon, ma in “Jail bait” c’è un’idea geniale (che 
			conclude il film) meritevole di tutt’altra e migliore sorte. Quindi, 
			pur essendo piatto, basato su stereotipi mal rappresentati, anche se 
			i personaggi non sono del tutto ridicoli, con solo una parvenza di 
			recitazione da parte di qualche interprete, si salva all’ultimo 
			momento rinunciando ad uno dei possibili finali, banali ma almeno un 
			po’ realistici, con il “coup de theatre” al quale accennavo pocanzi 
			che non è prevedibile se non solo pochi istanti prima della 
			rivelazione. 
			L’idea è ottima, ma assolutamente 
			non credibile per un cumulo di motivi. 
			Il secondo “Bride of the Monster” è 
			un disastro completo, a iniziare dalla debolissima e 
			prevedibilissima trama, per continuare con la pessima messa in scena 
			che conta su un polpo (vero, in un acquario = il mostro!) e sui suoi 
			ipotetici tentacoli mal realizzati e mossi ancora peggio, su un 
			laboratorio ridicolo, su un energumeno muto, ma non si deve 
			dimenticare il professor Strowski (siamo in piena guerra fredda), e 
			via discorrendo. 
			Fa quasi tenerezza 
			l’ultrasettantenne Bela Lugosi (che chissà perché si associò con Ed 
			Wood) con il suo marcato accento, il forzatissimo sguardo ipnotico e 
			i movimenti di mani e soprattutto dita, quasi una caricatura delle 
			sue interpretazioni vampiresche. 
			Film per veri “topi di cineteca” ... 
			di tanto in tanto ci vuole una distrazione dai film superelogiati, 
			con budget eccessivi cast con nomi famosi che si rivelano clamori 
			bidoni. Almeno, nel caso di Ed Wood si sa cosa si va a guardare e le 
			attese non vanno deluse: film senza né capo né coda, mal 
			interpretati e peggio realizzati che tuttavia, proprio per tali 
			motivi, hanno un loro fascino ... dell’orrido. 
			
			  
			
			
			74 “Secretos del corazón” (Montxo Armendáriz, Spa, 1997) trad. lett. 
			“Segreti del cuore” * con Carmelo Gómez, Charo López, Andoni Erburu, 
			Silvia Munt *  IMDb 7,3 Nomination Oscar miglior film in lingua non 
			inglese  * Premio Angelo Azzurro (miglior film europeo tra quelli in 
			concorso) e Nomination Orso d’Oro al Festival di Berlino  *  4 Premi 
			Goya (Andoni Erburu attore rivelazione, Charo López non 
			protagonista, scenografia, sonoro) e 5 Nomination 
			Film degno della migliore tradizione 
			spagnola, di quelli che purtroppo negli ultimi decenni sono sempre 
			più rari. Un’ottima storia ben descritta, con un buon cast e una 
			bella ambientazione. Tutto viene filtrato attraverso la curiosità 
			del piccolo Javi, che vive in città con il fratello a casa di due 
			zie, mentre la madre (vedova) resta nel paesino di campagna. 
			Curioso, ma un po’ pauroso, intraprendente ma condizionato dalle 
			tante bugie (più o meno innocue) che gli propinano, a cominciare dal 
			fratello maggiore. Al di là di zie, zii e nonno, Montxo Armendáriz 
			(anche sceneggiatore del film) propone vari personaggi ben 
			caratterizzati con poche “pennellate”, spaccati della vita di 
			campagna e simpatiche scene scolastiche, in particolar modo quelle 
			delle prove della recita annuale. 
			Anche se alcune situazioni si 
			sospettano, le conferme arrivano con il ritmo giusto e sempre 
			mantenendo un po’ di sorpresa.  
			Merita senz’altro una visione. 
			
			
			  
			
			
			73 “Secrets & Lies” (Mike Leigh, UK, 1996) tit. it. 
			
			“Segreti e bugie” * con Timothy Spall, Brenda Blethyn, Marianne 
			Jean-Baptiste, Phyllis Logan *  IMDb 8,0 RT 95%  *  5 Nomination 
			Oscar (Miglior film, Mike Leigh per regia e sceneggiatura, Brenda 
			Blethyn protagonista, Marianne Jean-Baptiste non protagonista) 
			Penso che si sarebbe potuto 
			sviluppare l’ottimo soggetto in modo molto migliore e più 
			equilibrato. Troppo lunga e ripetitiva la prima parte, scontata la 
			seconda, un'occasione persa. Come esempio significativa, nella parte 
			centrale del film c’è un’esagerata l'inquadratura fissa di una 
			decina di minuti sulle due protagoniste, in un bar assolutamente 
			deserto. Le due ore e un quarto sono senz’altro troppe per questo 
			film, volendo mantenere tale durata non c’era che l’imbarazzo della 
			scelta per aggiungere qualche elemento significativo. Sul tema degli 
			abbandoni e delle adozioni, sulla eventuale ricerca di genitori 
			naturali o, al contrario, ricerca di figli dati in affidamento già è 
			stato detto tanto ma senz’altro è un tema che può essere 
			approfondito da molti punti di vista. 
			Ho trovato molto bravo Timothy Spall 
			(di recente apprezzato in “The Party”, 2017) ma anche Brenda Blethyn 
			e Marianne Jean-Baptiste forniscono ottime interpretazioni e penso 
			che abbiano meritato le rispettive Nomination. 
			Buon film, ma mi aspettavo di più 
			... soprattutto mi ha deluso la regia. 
  
			
			
			72 “Shadowlands” (Richard Attenborough, UK, 1993) tit. it. 
			
			“Viaggio in Inghilterra” * con Anthony Hopkins, Debra Winger, Julian 
			Fellowes  *  IMDb 7,4 RT 97% * 2 Nomination Oscar (Debra Winger 
			protagonista e William Nicholson per la sceneggiatura) 
			Tratta di un breve periodo della 
			vera vita di C. S. Lewis, un prof. di lingua e letteratura inglese 
			ad Oxford, molto più famoso per essere l'autore - fra altri scritti 
			- dei 7 libri noti come “Le cronache di Narnia”. L’incontro con una 
			sua “ammiratrice” americana, la poetessa “dilettante” Joy Gresham, 
			con figlio al seguito, certamente cambiò la sua vita routinaria 
			divisa fra università e casa, che divideva con il fratello Warnie.
			 
			La storia si trascina a ritmo lento, 
			ma per fortuna viene vivacizzata dai dialoghi, quasi simpatici 
			battibecchi, fra Lewis e Joy nei quali spesso intervengono anche 
			Warnie e vari colleghi, molti dei quali guardano con un’aria di 
			superiorità “l’americana” che, tuttavia, ha sempre una risposta 
			pronta e sagace per loro. A ciò si aggiungono alcuni stralci delle 
			conferenze filosofico-religiose tenute da Lewis in affollatissime 
			sale e, infine, è interessante lo spaccato della vita universitaria 
			di Oxford negli anni ’50, con le riunioni (quasi riti) di 
			ottuagenari togati che mantengono tradizioni secolari sia negli 
			edifici del '700, sia negli spazi aperti lungo le rive del fiume. 
			Chi conosce almeno un po’ le 
			mentalità britannica e americana, può apprezzare più a fondo lo 
			scontro culturale fra uno degli ambienti più obsoleti, seppur colti, 
			della terra di Albione, e il moderno modus vivendi del nuovo mondo 
			rappresentato dalla saccente ma arguta, sfrontata ma acuta Joy.
			 
			Ottimo il cast, e non mi riferisco 
			solo ai protagonisti Hopkins e Winger, ma anche al giovane Joseph 
			Mazzello (Douglas, il figlio di Joy), a Edward Hardwicke (Warnie 
			Lewis) e ai tanti altri che ricoprono ruoli minori. 
			Chi pone attenzione ai contenuti dei 
			dialoghi e delle conferenze di C. S. Lewis, vi troverà mille spunti 
			di riflessione, fra il filosofico e il religioso. 
  
			
			
			71 “Fail Safe” (Stephen Frears, Martin Pasetta, USA, 2000) tit. it.
			
			
			“A prova di errore” * con Walter Cronkite, Richard Dreyfuss, Noah 
			Wyle  *  IMDb 7,4 RT 100% 
			Ancora un film per la tv, un ottimo 
			prodotto in particolare considerando la sua eccezionalità. Il film 
			fu realizzato “in diretta” su vari set della Warner Brothers Burbank 
			Studios, per la rete televisiva CBS, primo esperimento del genere 
			dopo 39 anni di attività. 
			I pochi attori che comparivano in 
			diverse location dovevano quindi cambiare set e, nel caso di Harvey 
			Keitel, cambiarsi rapidamente (dal pigiama a casa alla divisa nella 
			sala riunioni). Anche George Clooney (fra l’altro produttore 
			esecutivo del film) passa dall’alloggio piloti all’interno del 
			bombardiere, ma molto probabilmente doveva solo muoversi nella 
			stanza accanto e indossare casco e maschera da pilota. Da 
			sottolineare che, per sicurezza, la CBS aveva già prodotto una copia 
			dell’ultima “prova in costume”, da mandare in onda in qualunque 
			momento nel caso fosse sorto un problema nel corso della diretta ... 
			ma tutto andò alla perfezione.  
			La sceneggiatura è tratta 
			dall’omonimo bestseller di Eugene Burdick e Harvey Wheeler del 1962, 
			del quale già nel ’64 fu realizzata un’ottima versione 
			cinematografica (IMDb 8,0, RT 95%), diretta da Sydney Lumet, con 
			Henry Fonda nei panni del Presidente e Walter Matthau in quelli del 
			cinico Professor Groeteschele.  
			Senz’altro un ottimo film con una 
			perfetta escalation di tensione, con un efficace montaggio che porta 
			gli spettatori a seguire i contatti fra la sala controllo del 
			quartier generale dello Strategic Air Command di Omaha, lo studio 
			del Presidente con il famoso telefono rosso (linea diretta con 
			Mosca), il National Security Council del Pentagono. 
			Cast di tutto riguardo con Richard 
			Dreyfuss (Presidente USA), Harvey Keitel (Gen. Warren A. Black "Blacky"), 
			Hank Azaria (Prof. Groeteschele), Brian Dennehy (Gen. Bogan), George 
			Clooney (Col. Jack Grady) e tanti altri volti noti, apprezzati 
			caratteristi in decine di film americani. A proposito delle loro 
			interpretazioni è giusto e fondamentale sottolineare che non c’era 
			la possibilità di un secondo ciak, né di prendersi pause durante 
			l’ora e mezza di performance anche se non erano sempre in scena, ... 
			altro che attori di mezza tacca che hanno bisogno di decine di ciak 
			per dire mezza battuta!  
			“Fail Safe” è un thriller politico e 
			di strategia bellica di alto livello, ne consiglio la visione. 
  
			
			70 
			“Fanny & Alexander” fu l’ultimo film diretto da Igmar Bergman e 
			conta con l’ultima apparizione di uno dei suoi attori prediletti, 
			l’ottimo Gunnar Björnstrand, protagonista in una ventina di suoi 
			film fra i quali Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole 
			(1957), Come in uno specchio (1961), Luci d'inverno (1963), Persona 
			(1966). 
			
			
			
			Recensione nel post su Discettazioni  Erranti 
			
			  
			
			
			69 “Un mondo di marionette” (Ingmar Bergman, Ger, 1980) tit. or. 
			“Aus dem Leben der Marionetten” * con Robert Atzorn, Christine 
			Buchegger, Martin Benrath  *  IMDb 7,5 RT 56% 
			In realtà si tratta di un film per 
			la TV tedesca diretto da Bergman nel periodo in cui si allontanò 
			dalla Svezia dopo essere stato accusato di frode fiscale, fatto che 
			lo turbò e depresse a tal punto da doversi ricoverare per vari mesi 
			in una clinica. Per “Un mondo di marionette” si avvalse di un cast 
			tutto tedesco, come per il suo precedente lavoro in Germania “L'uovo 
			del serpente”. I protagonisti sono Katarina and Peter Egermann, una 
			coppia già vista in un episodio di “Scene da un matrimonio” (1973), 
			in quel caso interpretati da Bibi Andersson e Jan Malmsjö. 
			Il film inizia con un omicidio e 
			poi, con flashback e flashforward, tenta di presentare i legami fra 
			vari personaggi - tutti molto particolari - con indagini della 
			polizia, le solite infinite discussioni fra moglie e marito, 
			tradimenti, amanti, e via discorrendo. Ne esce un quadro un po’ 
			confuso costituito da scene nettamente scollegate fra loro per 
			spazio e tempo, nelle quali interagiscono 2 o al massimo 3 
			personaggi principali, con lunghe discussioni o confessioni. 
			 
			Qualcuno lo giudica sottovalutato, 
			altri dicono che risente del periodo post-depressivo di Bergman, 
			l’ho trovato interessante sotto certi aspetti ma certamente non è 
			all’altezza della fama del regista svedese. 
			Per questo film Bergman torna a 
			girare in bianco e nero, dopo vari film a colori. 
  
			
			
			68 “Passione” (Ingmar Bergman, Sve, 1969) tit. or. 
			
			“En passion” * con Liv Ullmann, Bibi Andersson, Max von Sydow  *  
			IMDb 7,8 RT 100% 
			Siamo passati al colore, gli usuali 
			pochi personaggi (interpretati dai soliti bravi attori) si 
			confrontano ancora una volta in un ambiente limitato (un'isola), ma 
			in questo film Bergman inserisce una particolarità che non ricordo 
			di aver visto in nessuna altra occasione se non negli extra dei 
			film: i commenti degli attori a riguardo dei propri ruoli. Ognuno 
			degli attori principali ha un suo spazio in certo momento del film e 
			spiega al pubblico come vede il suo personaggio. Altra particolarità 
			è quella di una misteriosa storia di crudeltà sugli animali che si 
			sviluppa parallelamente a quella principale avendo tuttavia alcuni 
			punti di contatto.  
			Gli argomenti chiave del film, però, 
			sono ancora una volta quelli della gelosia che contrasta con la 
			libertà sessuale, le coppie in crisi e qualche accenno a Dio. 
			Un buon film, seppur con qualche 
			sbavatura, sorretto da ottime interpretazioni, ma ho l’impressione 
			che Bergman non padroneggi il colore come il bianco e nero, ma 
			almeno non ci sono più le esagerate luci troppo spesso sparate sugli 
			attori. 
  
			
			
			67 “La fontana della vergine” (Ingmar Bergman, Sve, 1960) tit. or. 
			“Jungfrukällan” * con Max von Sydow, Birgitta Valberg, Gunnel 
			Lindblom  *  IMDb 7,8 RT 100%  *  Oscar Miglior film non in lingua 
			inglese, Nomination per i costumi (b/n) 
			Nell'approfondimento della 
			filmografia di Bergman, dopo la trilogia "dell'assenza di Dio", dopo 
			la distrazione di un paio di film attualissimi visti in sala ("The 
			Shape of Water" e "The Bookshop") e prima di passare ad altri 3 film 
			successivi di Bergman (però non collegati fra loro) torno al1960 con 
			"La fontana della vergine", Oscar 1961 come film non in lingua 
			inglese. 
			“La fontana della vergine” è uno dei 
			pochi casi in cui Bergman non ha utilizzato una sceneggiatura sua, 
			ma si è affidato a Ulla Isaksson; resta invece al suo posto il 
			direttore della fotografia, il solito apprezzatissimo Sven Nykvist, 
			che però a me piace solo per gli esterni (bellissimo il suo bianco e 
			nero), mentre non sopporto le sue eccessive luci sparate sui volti, 
			l’eccesso di luminosità degli interni che, a giudicare dalle 
			sorgenti di luce visibili, dovrebbero essere poco illuminati, le 
			nette ombre plurime proiettate in ogni direzione, spesso 
			realisticamente impossibili.  
			Di conseguenza, pur apprezzando la 
			regia di Bergman, trovo che spesso si basi troppo sugli effetti 
			scenici e drammatici della fotografia di tipo teatrale, quasi 
			dimenticandosi del resto. A suo merito si deve però aggiungere che 
			conta sempre su ottime interpretazioni di bravi attrici e attori 
			che, evidentemente, sa dirigere.  
			Tornando a “La fontana della 
			vergine”, devo dire che la storia, ambientata nelle campagne e 
			boschi svedesi del XIII secolo, è poco convincente ma bisogna tener 
			presente che il soggetto originale è una leggenda, tramandata anche 
			dal testo di una popolare ballata. Si devono quindi leggere e 
			considerare i significati morali e simbolici che si vollero inserire 
			all’epoca e non la traballante trama, fino al quasi miracoloso 
			finale. 
			Al momento lo reputo sopra la media 
			della dozzina di film di Bergman finora visti, ma non fra i suoi 
			migliori. 
  
			
			
			66 “The Bookshop” (Isabel Coixet, UK/Spa, 2017) tit. it. 
			
			“La libreria” (forse, almeno si spera) * con Emily Mortimer, Bill 
			Nighy, Patricia Clarkson  *  IMDb 6,6 RT 71% 
			
			 
			Non male, buono il soggetto (tratto 
			dall’omonimo libro dell’inglese Penelope Fitzgerald), bella 
			l’ambientazione in un tranquillo paesino costiero, umido, piovoso, 
			con edifici e personaggi di altri tempi. L’anziano generale succube 
			della falsa, sleale e perfida moglie Violet (Clarkson), il solitario 
			e misterioso Mr. Brundish (Nighy), la piccola Christine (la brava 
			tredicenne Honor Kneafsey, che già conta 7 film) e sua madre, il 
			pescivendolo, l’avvocato, il direttore della banca e altri sono 
			tutti ben descritti (più o meno approfonditamnete a seconda del loro 
			ruolo) e interpretati da un buon cast tutto inglese. Solo il viscido 
			Milo North (James Lance) mi è sembrato dipinto troppo sopra le righe 
			e il pessimo doppiaggio lo ha ulteriormente peggiorato. 
			Come era facilmente prevedibile 
			considerati tema e ambientazione il film, realisticamente, si 
			sviluppa lentamente fra esterni quasi sempre grigi e umidi (ma siamo 
			in UK, effettiva location Portaferry, Irlanda del Nord), vecchie 
			case a magioni, e ovviamente si parla relativamente spesso di 
			scrittori e poeti, nonché di romanzi, classici e moderni. 
			 
			La regista è la catalana Isabel 
			Coixet, che forse qualcuno ricorda per il suo “Elegy” (2008, tit. it. 
			“Lezioni d'amore”). Emily Mortimer (protagonista assoluta) e 
			Patricia Clarkson (appare poco ma ha un ruolo importante) avevano 
			già lavorato insieme in “Lars and the Real Girl” (2007), “Shutter 
			Island” (2010) e nel recentissimo e ottimo “The Party” (2017). 
			Se mai giungesse in Italia non 
			prevedo un gran successo ma penso che possa senz’altro piacere a chi 
			apprezza la lettura e a chi ha abbastanza cultura specifica per 
			apprezzarne la parte bibliofila-letteraria. 
			Al momento non sembra annunciato in 
			Italia, ma la situazione si potrebbe presto sbloccare dopo lo 
			“special gala” (e prima internazionale) al Berlin Film Festival, 
			giovedì scorso, 15 febbraio. In effetti non è ancora uscito neanche 
			in Inghilterra, ma solo in Spagna dove fra i Goya e altri Festival 
			ha raccolto 11 premi e 27 Nominanion e ha ottenuto buoni risultati 
			al botteghino. 
			
			
			  
			
			
			65 “The Shape of Water” (Guillermo Del Toro, USA, 2017) tit. it.
			
			
			“La forma dell’acqua” * con Sally Hawkins, Octavia Spencer, Michael 
			Shannon, Michael Stuhlbarg, Richard Jenkins  *  IMDb 7,8 RT 93%  13 
			Nomination Oscar 2018, oltre alle 4 già citate, ce ne sono 3 per Del 
			Toro (regia, miglior film e sceneggiatura, le ultime due condivise), 
			Octavia Spencer e Richard Jenkins (non protagonisti), fotografia, 
			costumi, montaggio e production Design. 
			Bella miscela di fantasy, fiction, 
			thriller, commedia, spy story e romance, narrata da Del Toro con 
			molto garbo, avvalendosi di un’ottima fotografia (senza troppe luci 
			fuori luogo, tutta sul giustamente cupo, interni trattati come 
			interni) ed un’eccezionale colonna sonora che da sola ha 
			praticamente ottenuto 3 Nomination: commento musicale originale, 
			sound editing e sound mixing (non mi domandate quale sia la 
			differenza fra le ultime due). 
			Tuttavia, mi ha lasciato molto 
			perplesso la scelta dell'inserto in b/n, penso di aver capito il 
			tipo di messaggio che Guillermo del Toro volesse convogliare, ma mi 
			sembra che il modo scelto c’entri come il cavolo a merenda ... una 
			vera stonatura nella struttura del film. Inoltre, varie "sorprese" 
			sono un po’ troppo prevedibili.  
			Ho trovato particolarmente in forma 
			Michael Shannon (che comunque rimane uno dei pochi senza Nomination) 
			e Sally Hawkins (candidata all'Oscar) della quale già si sapeva. 
			Perfino Michael Stuhlbarg mi è sembrato più convincente che nel 
			ruolo del professore, padre di Elio, in “Chiamami col tuo nome”. 
			Film senz’altro da non perdere 
			(oltretutto considerata l’attuale concorrenza ...), ma non è il 
			capolavoro che molti avevano annunciato e, probabilmente non il 
			miglior film di Guillermo Del Toro il quale, tuttavia, dovrebbe 
			essere quasi sicuro di portare finalmente a casa almeno un Oscar. 
  
			
			
			64 “Il silenzio” (Ingmar Bergman, Sve, 1963) tit. or. “Tystnaden” * 
			con Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Birger Malmsten  *   IMDb 8,0 RT 
			92% 
			Capitolo conclusivo della trilogia 
			dei “chamber films”, dopo “Come in uno specchio” (1961) e “Luci 
			d'inverno” (1963); senz’altro il più criptico e deprimente dei tre. 
			Come avevo scritto, la trilogia viene anche definita “del silenzio 
			di Dio” ma in questo caso il tema compare in maniera molto 
			marginale.  
			Il film all’epoca suscitò molto 
			scandalo per le scene di sesso esplicito, almeno così furono 
			considerate in quegli anni.  
			La strana storia vede protagoniste 
			Ester, morente, sua sorella Anna, “sessualmente intraprendente”, e 
			il figlio di quest’ultima. Si trovano in un hotel in un paese 
			straniero e non conoscono la lingua locale. Ciò rende ancor più 
			evidente l’incomunicabilità fra le sorelle (che sì 
			potrebbero/dovrebbero parlarsi) assimilandola quasi alla barriera 
			linguistica fra loro e il personale e altri ospiti dell’albergo. 
			L’unico connessione con l’esterno sarà il rapporto occasionale di 
			Anna, puro sesso, niente parola. 
			Dei tre “Il silenzio” è quello che 
			ho apprezzato di meno, “Luci d'inverno” è il mio preferito e, al di 
			là di questo ristretto ambito, penso sia uno dei migliori di Bergman 
			in assoluto. 
  
			
			
			63 “Luci d'inverno” (Ingmar Bergman, Sve, 1963) tit. or. 
			“Nattvardsgästerna” * con Gunnar Björnstrand, Ingrid Thulin, Max von 
			Sydow, Gunnel Lindblom  *  IMDb 8,1 RT 75% 
			Elemento centrale della trilogia dei 
			“chamber films” (o “del silenzio di Dio”), fra “Come in uno 
			specchio” (1961) e “Il silenzio” (1963).  
			Dopo la delusione del primo, temevo 
			questa seconda parte ma questo “Luci d'inverno”, al contrario, mi è 
			piaciuto veramente tanto, sia per la sceneggiatura che per le 
			interpretazioni. Gli argomenti tirati in ballo, e non certo per la 
			prima volta, da Bergman sono la ragione di vivere (se esiste), la 
			religione e la carenza della manifestazione di Dio (se esiste), i 
			rapporti personali che in questo caso vanno da un amore rifiutato ad 
			uno perso, tuttavia indelebile.  
			Dopo aver guardato un film, 
			specialmente se mi è piaciuto molto o per niente, vado a dare uno 
			sguardo alle recensioni per “confrontarmi” con chi la pensa in modo 
			totalmente opposto trovando critiche risibili. Uno dei (pochi) 
			denigratori di “Luci d'inverno” lo ha criticato perché “solleva 
			problemi, ma non fornisce soluzioni”! Sono millenni che nessuno 
			riesce a risolvere le questioni religiose e morali, come lo si può 
			pretendere da Bergman?  
			Dal mio punto di vista, il gran 
			merito del regista-sceneggiatore svedese è invece proprio quello di 
			proporre personaggi molto diversi fra loro, che si confrontano in 
			merito alle loro incertezze, aspirazioni, delusioni, frustrazioni e, 
			praticamente tutti, al contempo sentono l’assenza di un Dio sul 
			quale poter contare per trovare risposte ai loro dubbi. Gli ottimi 
			dialoghi sollecitano gli spettatori attenti (e pensanti) a cercare 
			le proprie conclusioni, gli altri (passivi) resteranno nel loro 
			stato di torpore mentale. 
			Ottimo film, senz’altro ad un 
			livello simile a quello dei migliori di Bergman della fine del 
			decennio precedente come “Il settimo sigillo”, “Il posto delle 
			fragole” e “La fontana della vergine”.  
			Lo stesso Bergman dichiarò che “Luci 
			d'inverno” è il solo film del quale è completamente soddisfatto. 
  
			
			
			62 “Come in uno specchio” (Ingmar Bergman, Sve, 1961) tit. or. 
			“Såsom i en spegel” * con Harriet Andersson, Gunnar Björnstrand, Max 
			von Sydow  *  IMDb 8,1 RT 100%  *  Oscar come Miglior film non in 
			lingua inglese e Nomination per la sceneggiatura 
			Primo elemento della trilogia dei 
			“chamber films” a cui seguiranno “Luci d'inverno” e “Il silenzio”, 
			entrambi del 1963. 
			Bergman ha messo su un film 
			assolutamente teatrale si a per gli spazi ridotti nei quali si 
			sviluppano le varie scene, sia per il limitatissimo numero di 
			personaggi (solo 4), sia per il tipo di recitazione imposta agli 
			attori. Non mi sono piaciute per niente le luci (e soprattutto le 
			ombre) assolutamente fasulle (un paio di esempi lampanti sono fra le 
			foto allegate). Eppure, il direttore della fotografia era 
			l’apprezzato Sven Nykvist, vincitore di due Oscar, ma ciò non mi fa 
			cambiare opinione. 
			Inoltre, a fronteggiare Karin (Harriet 
			Andersson), da poco uscita da una clinica psichiatrica, Bergman 
			(anche sceneggiatore) pone i tre uomini della sua vita, vale a dire 
			padre, fratello e marito, anche questi con loro bravi problemi 
			psichici, seppur di natura ben diversa. Tutto si risolve come un 
			parlare fra sordi, ognuno vuole andare per la sua strada e la 
			comunicazione effettiva è praticamente inesistente. 
			Ho apprezzato tanti dei suoi film 
			precedenti, ma questo mi ha molto deluso per i vari suddetti motivi. 
			Spero di trovare qualche tema più realistico e interessante, oltre 
			ad una più precisa regia, negli altri due film della trilogia. 
  
			
			
			61 “La grande séduction” (Jean-François Pouliot, Can, 2003) tit. 
			int. 
			
			“Seducing Dr. Lewis”, tit. it. “La grande seduzione” * con David 
			Boutin, Lucie Laurier, Raymond Bouchard  *  IMDb 7,5 RT 68% *  
			Audience Award al Sundance Film Festival 2004 
			Singolare commedia canadese che, 
			seppur alla larga, ricorda molto uno dei capolavori spagnoli degli 
			anni ’50: “Bienvenido Mr. Marshall” (1953).  
			Mentre il paesino spagnolo di Villar 
			del Río era messo in subbuglio dall’annuncio dell’arrivo di 
			americani che avrebbero potuto destinare aiuti nell’ambito del Piano 
			Marshall, gli abitanti del minuscolo villaggio di (ex)pescatori di 
			St. Marie-La-Mauderne in Québec devono convincere un medico a 
			trasferirsi lì, conditio sine qua non per avere una piccola fabbrica 
			che darebbe lavoro a tutti i locali, che attualmente sopravvivono 
			con i sussidi di disoccupazione visto che non si pesca praticamente 
			più.  
			Come nel primo caso tutti, guidati 
			dall’intraprendente alcalde, collaborano a presentare il paese 
			attraente (secondo il folklore dell’immaginario collettivo di un 
			paesino della campagna andalusa) in “La grande séduction” il sindaco 
			organizza e dirige i 125 abitanti per “sedurre” il giovane chirurgo 
			plastico Dr. Lewis (da cui il titolo) di Montreal e convincerlo a 
			rimanere dopo i 30 giorni che deve scontare lì come servizio 
			sociale, dopo essere stato trovato in possesso di cocaina. 
			 
			Piacevole e ingenua, con alcuni 
			buoni spunti e vari personaggi ben caratterizzati, nel complesso 
			senz’altro sufficiente, ma ben distante da “Bienvenido Mr. Marshall” 
			che tutt’oggi viene inserito ai primi posti fra i migliori film 
			spagnoli di sempre. Lo diresse il geniale Luis G. Berlanga, il quale 
			ne curò anche la sceneggiatura insieme con un altro apprezzatissimo 
			regista e sceneggiatore dell’epoca, Juan Antonio Bardem (zio di 
			Javier) che un paio di anni dopo avrebbe diretto altre due pietre 
			miliari del cinema spagnolo: “Calle Mayor” (1955) e “Muerte de un 
			ciclista” (1956). 
  
			
			
			60 “La flor de mi secreto” (Pedro Almodóvar, Spa, 1995) tit. it. “Il 
			fiore del mio segreto” * con Marisa Paredes, Juan Echanove, Carme 
			Elias  *  IMDb 7,1 RT 83% 
			Prodotto due anni dopo “Kika” e due 
			prima di “Carne tremula”, “La flor de mi secreto” non fra i film più 
			conosciuti di Almodóvar né, in generale, è molto apprezzato, 
			tuttavia a me è piaciuto, più di vari altri. Ci sono abbastanza 
			colpi di scena, ben distribuiti anche se qualcuno prevedibile, e 
			interessanti personaggi al limite del caricaturale, ma tutti più che 
			reali, affidati ad interpreti di riconosciuta esperienza come Rossy 
			de Palma, Juan Echanove e l’immarcescibile e inimitabile Chus 
			Lampreave, ma c’è anche Joaquín Cortés (proprio lui, il famoso 
			bailaor flamenco) nella prima delle sue sole 3 apparizioni sul 
			grande schermo. 
			Ho avuto l’impressione che i rossi 
			del regista manchego questa volta fungano veramente da filo 
			conduttore, sono pochissime le scene nelle quali non spicchino 
			vestiti, fiori o oggetti di ogni tonalità di rosso. Fedele al suo 
			standard, Almodóvar inserisce anche ad arte varie canzoni classiche 
			fra le quali “En el ultimo trago”, interpretata dalla sua amica 
			messicana Chavela Vargas. 
			Se minimamente piace lo stile di 
			Almodóvar, direi che è un film imperdibile, grazie anche ad una 
			superba interpretazione di Marisa Paredes. 
  
			
			
			59 “Mr. and Mrs. Bridge” (James Ivory, USA, 1990) * con Paul Newman, 
			Joanne Woodward, Saundra McClain  *  IMDb 6,7 RT 80%  *  Nominaton 
			Oscar 1991 per Joanne Woodward protagonista   *  2 premi e 
			Nomination Leone d’Oro per James Ivory a Venezia 1990 
			James Ivory, apprezzato regista 
			(seppur poco prolifico) e saltuariamente sceneggiatore, attualmente 
			in corsa per l’Oscar con “Chiamami col tuo nome”.  
			In questo film descrive e segue i 
			delicati rapporti fra i coniugi Bridge, i loro figli e i loro 
			singolari amici (sarebbe più corretto dire conoscenti, fatto salvo 
			un singolo caso) basandosi su due romanzi di Evan S. Connell 
			pubblicati separatamente “Mr. Bridge” e “Mrs. Bridge”, ma uniti e 
			adattati da Ruth Prawer Jhabvala (Camera con vista, Howards End, 
			Quel che resta del giorno, ...).  
			Lo definirei un “film di mestiere”, 
			che si sviluppa lentamente ma con precisione, con un buon cast ad 
			interpretare i personaggi che caratterizzano la borghesia del Kansas 
			fra la fine degli anni ’30 e inizio dei ’40, condotti da due ottimi 
			attori quali Paul Newman e Joanne Woodward, quest’ultima candidata 
			Oscar 1991 come protagonista. Penso sia interessante sottolineare 
			che i due erano veramente marito e moglie, una delle coppie più 
			longeve del mondo hollywoodiano essendo stati sposati per ben 50 
			anni, felice convivenza interrotta solo dalla morte di Newman nel 
			2008, e che questo abbia ulteriormente favorito la loro prestazione. 
  
			
			
			58 “Nowhere in Africa” (Caroline Link, Ger, 2001) tit.or. "Nirgendwo 
			in Afrika" * con Juliane Köhler, Merab Ninidze, Matthias Habich  *  
			IMDb 7,6 RT 84% 
			Un po' troppo lungo per ciò che 
			racconta, e un po' troppo edulcorato almeno per come mi immagino il 
			Kenya fra il 1938 e il 1946, ma certo non ero lì per poterlo 
			affermare con certezza. Almeno la natura è chiaramente affascinante. 
			Sceneggiatura adattata dall’omonimo 
			romanzo autobiografico (1995) di Stefanie Zweig, che narra della sua 
			famiglia ebrea, il padre avvocato già fuggito in Kenya, di buona 
			volontà e attitudine positiva, ma senza troppa spina dorsale, 
			successivamente raggiunto dall'insopportabile e arrogante moglie, 
			sostanzialmente stupida ed egoista, e dalla molto più disinvolta e 
			di mentalità aperta figlia di 5 anni e mezzo (l’autrice del libro). 
			Caroline Link, regista e 
			sceneggiatrice, saltella dai rapporti fra inglesi e tedeschi 
			(soprattutto ebrei in fuga dalla Germania nazista) a quelli fra 
			coloni europei e indigeni, dalle liti familiari fra l’eterna 
			scontenta Jettel e il marito Walter alla crescita della piccola 
			Regina che invece sa mantenere i giusti rapporti con i locali, con 
			gli inglesi e anche con la natura.  
			Il film ottenne l’Oscar come Miglior 
			film in lingua non inglese nel 2003, attribuzione molto criticata e 
			anche in questo caso sorse il solito sospetto che più che la qualità 
			del prodotto avesse contato il tema dell’olocausto (tanto per 
			cambiare) ... uno dei contendenti era un certo “Hero” di un “tale” 
			Yimou Zhang, uno che senza dubbio dirige rasentando la perfezione, 
			specialmente in confronto alla regia anonima e scadente di Caroline 
			Link! 
  
			
			
			57 “Cuba feliz” (Karim Dridi, Fra, 2000) film-documentario * con 
			Miguel Del Morales “El Gallo”, Pepín Vaillant, Zaida Reyte, Mirta 
			Gonzáles, Aníbal Ávila, Alberto Pablo, Armandito Machado, Mario 
			Sanchez Martinez, Gilberto Mendez, Alejandro Almenares, Paisan 
			Mallet, Eulises Sanchez, Carlo Boromeo Planchez, Cándido Fabré  *  
			IMDb 6,5 RT 63%  *  Nomination a Cannes 2000 
			“El Gallo” (all’anagrafe Miguel Del 
			Morales) è un cantautore e chitarrista itinerante cubano, 76 anni 
			all’epoca di questo documentario, conosciuto anche come “memoria 
			vivente del bolero cubano”. 
			Il regista francese Karim Dridi lo 
			segue con la sua piccola videocamera da La Habana a Trinidad, da 
			Guantanamo a Santiago de Cuba e di nuovo a La Habana nei suoi 
			incontri con vecchi amici, giovani rapper, colleghi e ammiratori, 
			mentre canta per strada, in case private o anche nel treno. 
			 
			Sia ben chiaro, non è assolutamente 
			comparabile con il più conosciuto e professionale “Buena Vista 
			Social Club” di Wim Wenders (1999), ma i suoi meriti consistono 
			proprio nella sua maggiore spontaneità ed è un “documentario” per 
			modo di dire in quanto non c’è alcun commento aggiunto. 
			Per “Cuba feliz”, invece del solito 
			poster e qualche foto, vi propongo un estratto con una particolare 
			interpretazione della famosa “Lagrimas negras”, intervallata da 
			strofe estemporanee e duetti di presa in giro fra Zaida Reyte 
			sull’uscio di casa e i quattro musicisti (El Gallo è il chitarrista 
			con il cappello e gli occhiali scuri) in strada. 
			Questo è il link al film completo
			
			
			
			https://www.youtube.com/watch?v=uKD748D7_mw
			 
  
			
			
			56 “Paris when it sizzles” (Richard Quine, USA, 1964) tit. it.
			
			
			“Insieme a Parigi” * con William Holden, Audrey Hepburn, Grégoire 
			Aslan  *  IMDb 6,4 RT 57% 
			Dopo Boudou di Renoir, ho scelto 
			un'altra commedia ambientata a Parigi, stavolta americana e di oltre 
			30 anni più recente e sono d'accordo con chi dice che si tratta di 
			un film sottovalutato. Specialmente chi, come me, ama il cinema 
			apprezza la presa in giro di quell’ambiente e dei suoi personaggi, 
			dai produttori, agli sceneggiatori e agli attori, star o comparse 
			che siano, per non parlare dei modi di narrare e di unire le scene a 
			cominciare dalle dissolvenze che tornano in gioco ricorrentemente.
			 
			Si tratta di due o tre film in uno 
			... la trama ufficiale segue uno sceneggiatore che, dopo aver 
			bighellonato per vari mesi, deve ora scrivere una sceneggiatura di 
			un film (del quale esiste solo il titolo) in 48 ore, assistito dalla 
			dattilografa Gaby (Audrey Hepburn) all'uopo assunta e appassionata 
			di cinema. Confrontandosi, cambieranno i personaggi e gli 
			avvenimenti molte volte e (nel film) interpretano di volta in volta 
			i diversi protagonisti nelle varie ipotetiche scene con una miriade 
			di colpi di scena. 
			L'interpretazione di William Holden, 
			che si rivelandosi un ottimo commediante, supera nettamente quella 
			della Hepburn e al loro fianco appaiono vari special guestcon Toni 
			Curtis primo fra tutti in un ruolo di attore frustrato per avere 
			sempre ruoli secondari, ma ci sono i camei di Marlene Dietrich e Mel 
			Ferrer (all’epoca marito della Hepburn). 
			Merita senz’altro una visione in 
			quanto non ha niente da invidiare a tante altre eleganti commedie 
			dell’epoca.  
  
			
			
			55 “Boudu sauvé des eaux” (Jean Renoir, Fra, 1932) tit. it. 
			
			“Boudou salvato dalle acque” * con Michel Simon, Marcelle Hainia, 
			Sévérine Lerczinska  *  IMDb 7,5 RT 100% 
			In biblioteca ho trovato questa 
			quasi rarità, uno dei primi film sonori di Renoir (il quarto) che 
			precede di vari anni i suoi più famosi lavori francesi quali “La 
			grande illusione” (1937) e “La Bête humaine” (1938, L'angelo del 
			male), entrambe con Jean Gabin come protagonista, prima di andare 
			oltreoceano. 
			Ho notato il dvd in quanto sulla 
			custodia si sottolineava che si trattava dell’edizione restaurata 
			(anche in questa c’è la mano dell’ottima “Immagine Ritrovata” di 
			Bologna) ed in effetti la “pellicola” appare quasi perfetta. 
			 
			Il soggetto è tratto dall’omonima 
			commedia in 4 atti (1919) di René Fauchois, successivamente 
			ri-adattata da Paul Mazursky per “Down and out in Beverly Hills” ( 
			1986, Su e giù per Beverly Hills, con Nick Nolte e Richard Dreyfuss) 
			e di nuovo in Francia con “Boudou” (2004, con Gérard Depardieu). 
			Con “Boudou salvato dalle acque” 
			Renoir si cimenta in una commedia leggera nella quale un vagabondo 
			interpretato da un giovane Michel Simon viene ripescato dalla Senna 
			da un libraio che lo accoglie in casa sua, non prevedendo lo 
			scompiglio che causerà nella sua esistenza borghese. Pur trattandosi 
			di una commedia, traspare in modo evidente la qualità della regia e 
			già si possono apprezzare le scelte delle inquadrature e i movimenti 
			di macchina che daranno poi fama al regista francese. 
  
			
			
			54 “Zivot je cudo” (Emir Kusturica, Ser, 2004) tit. it. 
			
			“La vita è un miracolo” * con Slavko Stimac, Natasa Tapuskovic, 
			Vesna Trivalic  *  IMDb 7,7 RT 60% 
			Uno dei pochi Kusturica non ancora 
			visto, dei suoi film a soggetto ora mi manca solo “On the Milky Road 
			- Sulla Via Lattea” che tuttavia non mi attira più di tanto, non lo 
			vedo appetibile e la presenza dell’incapace Monica Bellucci funge da 
			deterrente. 
			Del resto mi sembra che dopo “Gatto 
			nero, gatto bianco” (1998) con il passaggio al secolo corrente 
			Kusturica abbia perso un po’ della sua verve, non riesca più a 
			stupire come agli inizi (e questa è una situazione comune a tanti) e 
			spesso è ripetitivo. Per “La vita è un miracolo” direi che a tutto 
			ciò si aggiunge il fatto di aver prodotto un film di 2 ore e mezza 
			(molto stiracchiate) a metà fra due temi: la ferrovia e la guerra. 
			Con poco sforzo avrebbe potuto realizzare due film probabilmente 
			migliori.  
			Come suo solito, K. tratteggia tanti 
			personaggi un po’ sopra le righe e propone trovate divertenti, molte 
			con un po’ di humor nero (necessario per ridere della guerra) ma in 
			questo film sono gli animali quelli che giocano un ruolo importante 
			e sono molto ben gestiti. Cane, gatto e asino sono dei veri 
			protagonisti, ma anche oche, galline, aquila e cavallo fanno la loro 
			brava figura. 
			Senz’altro troppo lungo per ciò che 
			narra,ha dalla sua tante belle le riprese esterne (in particolare i 
			campi lunghi) e buone le musiche anche se non certo al livello di 
			quelle di Goran Bregovic.  
  
			
			
			53 “Zatôichi” (Takeshi Kitano, Jap, 2003) * con Takeshi Kitano, 
			Tadanobu Asano, Yui Natsukawa  * IMDb 7,6 RT 91% * 4 premi a Venezia 
			+ Nomination Leone d'Oro 
			Il personaggio del massaggiatore 
			cieco, abilissimo con la spada, giocatore d’azzardo e difensore dei 
			deboli fu creato dallo scrittore giapponese Kan Shimozawa. Il 
			successo di Zatôichi fu tale che l’autore continuò a scrivere delle 
			sue imprese, che furono poi utilizzate come soggetti di quasi 30 
			film (questo di Kitano è il più recente di tutti), per non parlare 
			delle 100 puntate (in 4 annate) di un serial trasmesse dalla 
			televisione giapponese fra il 1974 e il 1979.  
			Dopo la pausa presasi con “Dolls” 
			(nel quale non compariva fra gli interpreti) Takeshi Kitano torna ad 
			essere protagonista-sceneggiatore-regista e mette insieme elementi 
			molto disparati, sempre con il suo tocco umoristico, per poi stupire 
			con l’assolutamente insolito finale quasi Bollywoodiano, con un 
			tocco di tiptap musical americano, che pone termine a una vicenda 
			ambientata nel Giappone della prima metà del ’800, segnata da 
			innumerevoli morti a fil di spada e duelli lampo fra ninja, samurai 
			e ronin con gran spargimento di sangue. Oltre al “gran finale”, sono 
			degne di nota anche altre due scene “anomale” a ritmo di musica: 
			quella dei contadini che zappano e quella della ricostruzione della 
			casa andata a fuoco.  
			Come scrissi ieri a proposito di “Dolls”, 
			quello fu l’ultimo film per il quale Kitano si affidò all’ottimo Joe 
			Hisaishi e con “Zatôichi” inizia la sua collaborazione con Keiichi 
			Suzuki (oltre a questo, altri 4 film insieme). 
			Pur essendo stato il maggior 
			successo di Kitano, e pur piacendomi, mi ha convinto meno degli 
			altri ... mi sono mancati i silenzi e le pause ...  
  
			
			
			52 “Dolls” (Takeshi Kitano, Jap, 2002) * con Miho Kanno, Hidetoshi 
			Nishijima, Tatsuya Mihashi  *  IMDb 7,7 RT 87%  *  Nomination Leone 
			d'Oro a Venezia 2002 
			Film molto diverso dai precedenti, 
			del quale Kitano è solo regista e sceneggiatore, ma non 
			protagonista, l’ultimo in assoluto con i commenti musicali di Joe 
			Hisaishi (peccato, mi piaceva tanto), il primo con poco sangue, in 
			cui la yakuza c’entra solo molto marginalmente. Tre storie di folle 
			amore eterno o amore e follia le cui strade si lambiscono, seppur 
			per pochi momenti e per eventi fortuiti.  
			Film estremamente “poetico” che mi 
			ha ricordato tanto Almodóvar per la quantità e varietà di rossi che 
			Kitano include nelle sue inquadrature. 
			Si apre e si chiude con i burattini 
			(dolls del titolo) del teatro Bunraku che, nel finale, replicano 
			l’andare dei due protagonisti, legati con una corda ... ovviamente 
			rossa. 
			Da non perdere, e sarà una gran 
			bella sorpresa se per voi finora valeva l’equivalenza (falsa) 
			Takeshi Kitano = violenza e sangue. 
			
			
			 
			51 “Brother” (Takeshi Kitano, Jap, 2000) * con Takeshi Kitano, 
			Claude Maki, Omar Epps  *  IMDb 7,2 RT 48% 
			Fra “Sonatine” (del quale ho appena scritto) e “Brother” Kitano 
			realizzò altri 4 film fra i quali uno dei puoi più famosi “Hana-bi” 
			(1997, Fiori di fuoco), Leone d’Oro a Venezia. A quanto ne so, 
			dovrebbe essere l’unico film girato in “occidente”, ed esattamente a 
			Los Angeles, USA. 
			Ciò fornisce a Kitano (nei panni dello spietato Aniki Yamamoto, 
			opportunamente allontanatosi dal Giappone) l’occasione di scontrarsi 
			con tutti gli altri gruppi criminali locali, dai messicani ai 
			mafiosi italiani, portando al momentaneo successo il fratellastro 
			che lo ospita e la sua (inizialmente) scalcagnata banda.  
			In particolare in questo film, mette in mostra la sua abilità di 
			commediante, prendendo in giro un po’ tutti, con il volto sempre 
			impassibile, mosso solo da un tic.  
			Non fra i migliori di Kitano, tuttavia divertente, con ottimi 
			momenti di humor nero, movimentato, ben costruito e con tante buone 
			caratterizzazioni di personaggi non orientali.  |